L'oro della memoria
Da secoli teorici del restauro, artisti e perfino qualche poeta, come John Dryden, discutono sulla questione della “patina”, come viene chiamata quella velatura che il tempo naturalmente deposita sull’opera d’arte. Ci si chiede se sia legittimo rimuovere lo strato di materia che appanna il candore del marmo, testimoniandone però il vissuto. E, ampliando la riflessione, se sia davvero il caso di intervenire su un dipinto per riportare un colore al (presunto) originario fulgore; o per cancellare un dettaglio aggiunto da mani certo differenti da quelle dell’autore, ma ormai così tanto tempo addietro da essere diventato a suo modo “autentico” pure lui, assorbito nell’identità evolutiva di quell’opera.
Pare un dibattito da specialisti, e forse davvero lo è, finché si parla di scultura fidiaca, architettura romana e pittura rinascimentale. Ma la questione diventa attuale, e bussa alla porta di casa, quando in soffitta o in cantina accade di recuperare una scatola impolverata, e dentro quella scatola si scoprono fotografie in bianco e nero, o dai colori seppiati, infiacchite dal tempo e dall’umidità, debilitate da muffe e cristallizzazioni che erodono il supporto e sfocano l’immagine. Davanti a quelle fotografie siamo chiamati a decidere: limitarci a conservare oppure intervenire e ripulire, magari colmare le lacune, correndo il rischio di perdere tutto, a partire dal fascino dell’oggetto ritrovato?
Dove tutti vedono aprirsi percorsi divergenti, occorre un artista per riconoscere un ventaglio di possibilità. Uno come Oscar Brum, ad esempio. Che preserva il passato, l’autenticità anche sentimentale delle fotografie ritrovate, pur evitando di imbalsamarle in una teca. Che quelle immagini le rinnova, ma evitando la chirurgia estetica e rifuggendo il mito contemporaneo del ringiovanimento. Piuttosto, Brum inventa per loro una seconda vita che germoglia dalla prima e la assorbe in sé. Sovrascrive, aggiunge, integra, riveste. E, attraverso questa prassi, paradossalmente svela, mette a nudo ciò che nella foto è sopravvissuto: risveglia l’eco del passato celebrando il valore prezioso del ricordo.
La memoria è preziosa e misteriosa. Custodisce il passato e lo rimodella, restituisce la vita a chi l’ha persa. E prezioso e misterioso è l’oro che Brum stende in campiture disomogenee sulla superficie della fotografia intaccata dal tempo, facendolo dialogare con l’immagine e con il patrimonio sentimentale che dorme nelle sue profondità, silenzioso come un giacimento vergine sotto la roccia.
È un’operazione, quella di Oscar Brum, che richiama alla mente il Kintsugi, quella tecnica giapponese di restauro che, per saldare i frammenti di ceramiche spezzate, impiega una mistura luminosa di lacca e polvere d’oro. Glorifica le cicatrici anziché occultarle, e attraverso l’oro compie il miracolo d’una sopravvivenza che è trasformazione e rinascita.
Ed è, quella di Brum, soprattutto un’operazione che richiama il passato della terra d’origine dell’artista: quel Messico dei Maya e di molte altre civiltà precolombiane che furono spazzate via dalla conquista europea. Popoli depredati d’ogni ricchezza, cominciando proprio da quell’oro che per i conquistatori spagnoli significava solo denaro, e invece era anche cultura e arte, spiritualità e magia. Oro che il Messico spesso importava da sud, e che dunque costituiva un patrimonio comune ai Maya e alle civiltà mesoamericane e andine. Ovunque l’oro si offriva alle divinità, rivestiva i sacerdoti, ornava capi e guerrieri. Alcuni cerimoniali d’accesso ai ruoli sociali più alti prevedevano che, dopo un periodo di meditazione e penitenza, l’iniziato fosse cosparso di polvere d’oro: poi si immergeva in un lago sacro, restituendo quell’oro all’acqua, alla natura e agli dei.
Nell’opera di Brum, il legame con la tradizione messicana emerge anche dal lessico figurativo, ossia dai temi e soggetti delle sue sculture e dei suoi dipinti. Lo si coglie soprattutto nel motivo ricorrente del cuore: dipinto, scolpito, graffiato nella pietra o modellato in metallo lucente. È il cuore degli autoritratti di Frida Kahlo, degli ex voto popolari e barocchi, dei sacrifici umani compiuti dai Maya. Inteso non solo nel suo valore fisiologico, di organo vitale, ma anche e soprattutto come incarnazione della personalità dell’individuo, di quel groviglio pulsante di sentimenti, angosce ed emozioni che davvero fa di noi degli esseri umani. È un patrimonio così prezioso che non riusciamo a rassegnarci all’idea possa andare perduto, nemmeno dopo la morte. Allora doniamo fisicamente il cuore del defunto agli dei o lo affidiamo idealmente a Dio, magari attraverso il Sagrado Corazón de Jesús e l’Inmaculado Corazón de María. Più laicamente, tentiamo di custodire la memoria del defunto nel cuore nostro. In un modo o nell’altro, cerchiamo di assicurarci un dialogo con chi non c’è più: e quel dialogo da un lato trova un simbolo potentissimo nel cuore, dall’altro poggia sulla memoria, una memoria sentimentale che, ormai da un paio di secoli, ha trovato il suo primo attivatore nella fotografia: la testimonianza visiva che sopravvive al soggetto, ma deve combattere a sua volta una sfibrante battaglia con il tempo.
Diventa quasi superfluo, a questo punto, contestualizzare un altro dei filoni di lavoro di Oscar Brum, quello dedicato al tema del Día de Muertos e della Calavera Catrina: spettacolare esempio di sincretismo e multiculturalità che perpetua lo spirito precolombiano fondendolo con quello ispanico e cattolico. In qualche modo il Día de Muertos ci conforta, raccontandoci che non abbiamo sbagliato ad affidare il cuore dei nostri cari agli dei: nell’aldilà, la persona di cui conserviamo immagini e memoria continua a essere sé stessa, sia pure in forma nuova. Può perfino tornare tra noi. Come le tazze Kintsugi, come le fotografie alchemicamente rigenerate nell’oro da Oscar Brum.
Critico d'arte Roberto Mottadelli. Milano 11.22